domenica 23 ottobre 2011

Céline e quelle lettere maledette, recensione di "Céline ci scrive" su Rinascita






Céline e quelle lettere maledette

di Angelo Spaziano


Per i tipi del Settimo Sigillo è da poco in libreria il saggio “Céline ci scrive - Le lettere di Louis-Ferdinand Céline alla stampa collaborazionista francese, 1940-44”, a cura di Andrea Lombardi, con prefazione di Stenio Solinas.
L’opera sarà presentata oggi, alle 18 e 30 a Roma, nello spazio culturale “Foro 753”, in via Beverino 49, a Roma. Già la veste tipografica del testo è, di per se, una chicca. Non meno importante è il fatto che in questo volume vengono tradotte per la prima volta in italiano le lettere “maledette” di Louis-Ferdinand Destouches, alias Celine. Missive che il celebre letterato francese inviò ai vari organi di stampa della Repubblica di Vichy nel periodo della II guerra mondiale compreso tra l’arrivo dei tedeschi a Parigi e la vigilia che precedette la caduta del Terzo Reich. Nella prefazione Stenio Solinas tratteggia l’intera vicenda biografica dell’autore transalpino con una prosa che sa di poesia. Al tempo stesso il noto giornalista dà al lettore a secco di notizie tutte le informazioni utili sul carattere, gli ideali e i sentimenti dell’uomo di Courbevoie.
Caratteristiche che fanno dello scrittore d’oltralpe un soggetto stilisticamente non omologabile, né tantomeno “inquadrabile” in alcuna corrente letteraria di definizione accademica. Céline è Céline, insomma, un cane sciolto, uno spirito libero, un’anima inquieta e tormentata, individualista, anarchico, nichilista, razzista, rivoluzionario, antiborghese, antibolscevico e ferocemente ostile pure ai “terroni” di casa. Fino al punto da augurarsi la secessione della parte nord dell’Hexagone da quella sud, “meticcia”, “papista” e “massonica”. Il saggio introduttivo ci offre, inoltre, un rapido excursus sulle opere dello scrittore e ci fa comprendere perché è necessario leggerlo. Il fatto è che il burbero uomo di cultura è stato il primo, se non l’unico, che già agli albori del XXI secolo aveva individuato nella penosa decadenza politica, culturale e morale francese innanzitutto e dell’Europa in secondo luogo le tare dello spirito che attualmente avvelenano la nostra società e l’occidente tutto. Nell’introduzione che segue la prefazione, Andrea Lombardi scrive infatti che, proprio come vaticinava Céline: “I sistemi democratici, le istituzioni democratiche, sono diventati dei circhi equestri, delle palestre di buffoneria a buon mercato”.
E questo convincimento è presente ove più ove meno un po’ in tutte le opere dell’autore di “Viaggio al termine della notte”. Già il continuo affiancare il linguaggio popolaresco a quello erudito, unito al frequente uso di iperboli ed ellissi, impone Louis-Ferdinand come un innovatore nel panorama culturale transalpino e non solo. Tuttavia egli risulta a tratti insopportabile, offensivo, spudorato, oltraggioso, irriverente. Troppo diretto, troppo poco diplomatico, troppo privo d’orpelli intellettuali per piacere ai sensibili palati del pensiero omologato. Le sue lettere hanno la sagacia ed il mordente d’un Seneca e, soprattutto, sono “docce gelate” potenzialmente letali per le tiepide, tremule “animucce” del culturame politicamente corretto di stampo gallico. Per Céline null’altro che una manica d’ignavi e soppiattoni. Gente senza onore che, presagendo la fine del lungo conflitto che travagliava la Francia, dopo aver inneggiato all’occupante tedesco, già si preparava a fare il “salto della quaglia” in soccorso del vincitore angloamericano. Nell’epistola al “Je suis partout” del 15 giugno 1942, ad esempio, il castigamatti prende spunto dalla censura che ancora mette all’indice il suo romanzo “Beaux draps” per descrivere la nazione d’Oltralpe come un “continuum” spaziotemporale di vigliaccheria cronica e piaggeria inveterata. Una realtà affetta da una mortificante vocazione al conformismo che attraversa lo spirito della nazione celtica da un governo all’altro, da uno pseudoidealismo all’altro, svendendola per un piatto di lenticchie alla lobby che in quel momento risulta la più potente o la più di moda. Così come, in un’altra lettera inviata alla redazione del collaborazionista ”Je suis partout” del 9 luglio 1943, l’autore sembra tracciare con decenni d’anticipo sui tempi il deprimente identikit della nostra “trista, omologata, opulenta, borghese società”.
Proprio alla luce di tutto questo anticonformismo rancoroso e inconciliabile con il buon senso un tanto al chilo e con la politica accomodante e accattona dei guitti della partitocrazia, Céline viene ancora ostracizzato e bandito dai salotti letterari e dalle aule accademiche di Marianna. Non per niente Lombardi, riallacciandosi alla presentazione di Solinas, stigmatizza come a tutt’oggi non si riesca a trovare un solo critico sufficientemente onesto che sappia parlare dello spiritaccio di Clichy senza etichettarlo come “anti” o come “pro”. Nessuno, insomma, che valuti a pieno le capacità letterarie e stilistiche di un autore che, per quanto “maledetto” e scomodo, ha saputo spaziare da maestro nell’universo letterario novecentesco francese ed europeo, veleggiando di bolina dai pamphlet più ironici ai romanzi più puramente intimistici. Infatti, malgrado il suo innato senso della protesta, il caratteraccio impossibile e l’inguaribile misantropia, lo scontroso medico dei poveri riesce a ritrarre la realtà umana delle desolate periferie parigine con parole che sembrano stilettate al curaro, certo, ma anche con accenti dolci e delicati, quasi poeticamente nostalgici. La lettura di questo carteggio così “doloroso”, così sconsolato e inconsolabile, è agevolata anche dalla valida traduzione di Valeria Ferretti, fedele al testo originale e, insieme, elegante nella forma italiana. Interessanti i dagherrotipi dell’epoca che fungono da piacevole intervallo tra lettera e lettera. Spunti su cui meditare provengono anche dai tre articoli conclusivo-riassuntivi che completano il volume: “Il dialogo franco-tedesco: il caso L.F. Céline”, di Joseph Jurt; “L’altra parte della barricata”, di Andrea Lombardi; “Céline non ci ama” di Karl Epting. Intervistato da Claude Sarrante di “Le Monde” Céline avrà un giorno a dire: “Solamente a noi è stata data la parola. Questo fa l’uomo politico, lo scrittore, il profeta. La parola è orribile… ma arrivare a tradurre quell’emozione è così difficile che lei neppure se lo immagina, è sovrumano, è un’abilità che uccide”. E lui infatti risultò essere la prima vittima di se stesso e del suo dannato talento, indomito e senza compromessi.

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