domenica 9 dicembre 2012

"La prima vita di Céline", recensione di Adriano Scianca sul Secolo d'Italia


Tra Céline e Ftm sugli scaffali della libreria

mercoledì 5 dicembre 2012

Bébert, il gatto di Céline, in uscita edizione italiana


«Un gatto è l’incantesimo stesso, la delicatezza nell’onda...» dichiarava Louis-Ferdinand Céline.
E Bébert, enorme ed elegante gatto tigrato dalla straordinaria intelligenza, tanto ingordo e brontolone quanto fedele, non era un gatto ordinario. Abbandonato dal suo primo padrone, l’attore di cinema Le Vigan, dopo lungo vagare in Montmartre, al momento dell’occupazione, viene raccolto da Céline e da sua moglie e condividerà le loro peregrinazioni, le loro avventure, la loro miseria, il loro esilio. Céline ne ha fatto uno degli eroi dei suoi ultimi romanzi – quelle cronache allucinate della Germania sconfitta –, e uno dei gatti più famosi della letteratura francese.




venerdì 16 novembre 2012

Un importante esemplare di "Scandale aux abysses" in vendita...


Un lettore del blog cede questa importante edizione céliniana:














1)"Scandale aux abysses" di L.-F. Céline, Chambriand 1950 (1ed.orig.fr.) un esemplare della tiratura limitata di 20 copie su carta di lusso Chiffon d'Annonay, 31 illustrazioni in b/n + 4 tav. a colori fuori testo, autografo con dedica dell'illustratore Pierre-Marie Rennet (pseudonimo di Pierre Morin). Ottimo stato di conservazione, senza strappi, mancanze, segni a penna, macchie o altro che non sia il normale scorrere del tempo.

Se interessati mandatemi una mail a ars_italia@hotmail.com e vi metterò in contatto con il venditore.


sabato 20 ottobre 2012

Conferenza "Céline e le lettere alla stampa collaborazionista francese, 1940-1944" alla Fiera del Libro di Milano







































Alla Fiera del libro di Milano, Sala Nux, ore 17.45 parleremo un po' di Céline dalle Bagatelle alla Parigi occupata partendo dal libro

Louis-Ferdinand Céline, «Céline ci scrive – Le lettere di Louis-Ferdinand Céline alla stampa collaborazionista francese, 1940-1944» A cura di Andrea Lombardi, prefazione di Stenio Solinas, 2011, Edizioni Il Settimo Sigillo, Roma.

Tra i temi toccati da Céline in queste lettere-articoli «maledetti», tutti tradotti per la prima volta in italiano, alcuni sono più «urticanti» (il collaborazionismo, Vichy, gli ebrei, il razzismo, come nel lungo articolo-intervista a Jamet o la lettera dove lo scrittore auspica una divisione etico-etnica nord-sud della Francia), altri sono invece più letterari (contro Proust, contro Peguy, la lettera a Théophile Briant…).


Céline ritratto da Paolo Galetto

Per gentile concessione del bravissimo Paolo Galetto, pubblichiamo questo suo bel ritratto di Céline:


Copyright Paolo Galetto
http://paologaletto.blogspot.it/

sabato 13 ottobre 2012

La prima vita di Céline - Il corazziere a cavallo Louis Destouches nella prima guerra mondiale, di Andrea Lombardi




Louis-Ferdinand Destouches (in arte Céline), uno dei massimi romanzieri del ‘900, fu un uomo dalle molte vite: direttore di piantagioni, membro di una commissione sanitaria della Società delle Nazioni, medico di periferia, scrittore, bohemien, e, infine, “collaborazionista” e reprobo. Ma la prima vita di Céline, che lo segnerà indelebilmente, sarà quella vissuta dal giovane Maresciallo d’alloggio del 12° Corazzieri Louis Destouches, scagliato con il suo cavallo nell’inferno delle battaglie della Marna e delle Fiandre nella prima guerra mondiale. 

Formato 9x12, 56 pagg., 10 tavole b/n e colori, stampato su carta Dalì Neve da 120 gr., 
Euro 9,00

Per info e ordini:

Associazione Culturale “ITALIA Storica”
Via Onorato 9/18
16144 Genova
GE – Italia
P. IVA/C.F. 02033100997

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Tel. Cell. 348 6708340
E-Mail ars_italia@hotmail.com

lunedì 8 ottobre 2012

Boccaccio era il portiere Céline, il senzaruolo - di Silvano Calzini




Louis-Ferdinand Céline visto da Tullio Pericoli, in un dopo partita.


L’”enfant terrible” del calcio francese. Individualista, ribelle, irascibile, razzistoide, ingestibile dentro e fuori dal campo. Per Louis-Ferdinand Céline il calcio, così come la vita, era solo un gran merdaio, per cui giocava contro tutto e contro tutti; non aveva compagni di squadra, ma solo avversari. Non c’è partita in cui non sia stato espulso e ha un record imbattibile di giornate di squalifica.

Attaccabrighe per natura, estroso come giocatore e bizzarro come uomo, era una via di mezzo tra George Best, Gigi Meroni ed Eric Cantona. Calcisticamente parlando, un rivoluzionario che ha letteralmente inventato un nuovo modo di giocare, difficile da capire per molti, ma per ogni appassionato di calcio degno di questo nome esiste un prima e un dopo Céline. Quando aveva la palla tra i piedi era un fiume in piena, torrenziale, devastante. Un senza ruolo perché giocava in tutti i ruoli. O forse in nessuno.

Nella vita di tutti i giorni aborriva le luci della ribalta e amava frequentare i perdenti e i derelitti nei bassifondi più miserabili della città, tanto da essere soprannominato il “campione dei poveri”. Dopo una serie infinita di bravate, gestacci e liti furibonde, venne radiato dal campionato francese per continui e reiterati insulti di stampo razzista. E così si ritrovò a giocare in Danimarca.

Una volta graziato, tornò in Francia e si accasò in una piccola squadra della banlieu parigina dove concluse la carriera scendendo in campo con un foulard al collo, un paio di vecchi pantaloncini tenuti su da una corda, logore maglie consunte infilate una sull’altra e un pappagallo sulla spalla.

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Da http://quasirete.gazzetta.it/2012/10/05/boccaccio-era-il-portiere_celine-il-senzaruolo/

Un applauso a Calzini, questa è una delle cose più intelligenti e divertenti che abbia mai letto su LFC.

Andrea

"Céline ci scrive" segnalato da Massimo Raffaeli su "Alias" (Il Manifesto)



















"Jünger. La penna di un esteta all'umile servizio di un elenco di orrori", 
di Massimo Raffaeli

[...] Jünger, quando il 22 aprile del '43, poco dopo Stalingrado, si ritrova a tavola con Louis-Ferdinand Céline vede subito le sue unghie sporche e lo inquadra «nell'epoca della pietra». I due si detestano d'acchito e testimoniano di un'opposta paranoia ideologica: l'uno è un nazista ontologico, impolitico e per così dire sotto spirito, incapace (noterà Ferruccio Masini presentandone Irradiazioni, Longanesi 1979) di cogliere «fino a che punto una scrittura scaltrita e ben levigata possa far dimenticare i protocolli burocraticamente imprevedibili degli assassini»; l'altro è un populista e un antisemita forsennato che allucinando le dinamiche della lotta dì classe (e di nient'altro trattano in realtà i suoi capolavori, Voyage e Mort a crédit si illude di poterle placare e riscattare in una sorta di comunismo «per soli ariani» di contro al "socialismo kasher", come ha mostrato con dovizia di analisi una monografia recente di Francesco Germinario (Celine. Letteratura, politica e antisemitismo, Utet 2011).
È certo il Céline di Bagatelles ma è anche quello che in piena occupazione, alla solita maniera desultoria e blaterante, manda lettere ai giornali colme di pornografia razzista e di macabri appelli a farla finita con gli ebrei. Se perciò Juenger si ritrae, reticente e sempre sommamente ipocrita, viceversa Céline si sovraespone imperversando, fra il '40 e il '44, con interviste e lettere a «Je suis partout», «La Gerbe», «Au pilori», vale a dire la razzumaglia collabo cui lo scrittore tedesco è solito guardare con un disprezzo molto prossimo all'orrore. Qui viene utile la lettura di Céline ci scrive. Le lettere di Louis-Ferdinand Celine alla stampa collaborazionista francese (a cura di Andrea Lombardi, traduzione di Valeria Ferretti, edizioni Settimo Sigillo, pp. 239, € 25.00) introdotte da un bel ritratto céliniano di Stenio Solinas: il volume include una trentina di testi, è annotato, largamente illustrato, arricchito da documenti d'epoca (non tutti a dire il vero pertinenti, come quello sullo stalinismo di Aragon, noto a chiunque) ma è manchevole della tavola delle fonti che dovrebbe rimandare a Céline et l'actualité 1933-1961 (textes réunis et présentés par Jean-Pierre Dauphin et Pascal Fouché, «Cahiers Céline», n. 7, Gallimard 1986), dove pure sì trova una quantità di interviste altrettanto univoche e ossessive.
Nel dopoguerra Céline ritratterà ogni cosa senza davvero ritrattare nulla, dedicandosi alla grandiosa Trilogia del Nord; per parte sua, Jünger curerà il decorso di una reputazione molto dubbia prodigandosi nella stesura di prolissi, orribili, romanzi ecologico-filosofico-fantascientifici. All'uscita di Irradiazioni nel '49, la canaglia Céline è un condannato a morte in attesa di estradizione dalla Danimarca che non esita a riconoscersi nello scrittore troglodita dalle unghie luride e a sporgere subito querela: l'altro, l'aristocratico, il nazista impolitico, neanche se ne avvede perché sta già pianificando, nel buen retiro di Wilflingen, il suo accesso all'immortalità.

giovedì 6 settembre 2012

I "pamphlet" di Céline ristampati in Canada

Le Éditions Huit canadesi pubblicheranno un volume di 1.040 pagine che raccoglierà Mea culpa, Bagatelles pour un massacre, L'Ecole des cadavres e Les Beaux draps oltre che Hommage à Zola, A l'agité du bocal e Vive l'amnistie, Monsieur ! 
Il direttore editoriale ha dichiarato che la ristampa sarà pienamente legale (excusatio vista l'opposizione di Lucette Almansor, vedova di Céline, alla ristampa dei "pamphlet") poiché in Canada il copyright si estende sino a 50 anni dalla morte di un autore e non a 70 anni come in Francia.

martedì 7 agosto 2012

Éric Mazet su Céline: dal "comunismo" di Céline a "Mea Culpa", dalla "follia Hitler" a "Bagatelle per un massacro"





















Pubblichiamo un estratto di una lunga intervista di Émeric Cian-Grangé a Éric Mazet, tra i più brillanti studiosi céliniani. In questi passi Mazet affronta in maniera decisamente controcorrente alcuni “temi caldi” della biografia di Céline; pochi sanno infatti come Céline agli inizi degli anni ’30 paventasse l’espandersi del nazismo e del fascismo in Europa, come confidò più volte ad alcune sue amiche ebree comuniste residenti nell’Austria pre-Anschluss, o come prima del suo viaggio in Russia e della sua conseguente disillusione, testimoniata nel suo primo pamphlet “Mea Culpa”, importantissimo e ancora poco studiato,  nutrisse propositi “comunisti”. Insomma, come scrive Mazet, la figura di Louis-Ferdinand Destouches è ancora tutta da studiare.




La redazione di Mea Culpa non è sintomatica di un cambiamento molto forte nel percorso politico di Céline?

Mea culpa è capitale. Gen Paul Henri Mahé, Tinou Le Vigan avevano affermato che Céline aveva idee comuniste prima di recarsi a Leningrado. Che valore dare a quelle parole e a quei ricordi? Senz’altro, a chi gli stava intorno pareva aver propositi anarchici, idealisti, egualitari. Nel 1924, a Sir Eric Drummond, segretario generale della Società delle Nazioni, Ludwig Rajchman presentava il dottore Destouches come “un uomo intelligentissimo ed entusiasta […] che credeva profondamente negli ideali della Lega”. Non la si dava a bere al dottor Rajchman. Aveva apprezzato la partecipazione di Destouches alle lotte umanitarie, sociali e igieniste. Per scrivere il terzo atto de La Chiesa, ci vollero parecchie delusioni a Ginevra, New York o Parigi, molte amare constatazioni della superbia anglosassone, dell’impotenza o delle menzogne dei grandi discorsi umanitari…
Nell’agosto 1932, Céline si recò in Germania, a Breslau, per incontrare Erika Irrgang e visitare il dispensario municipale. Ne ritornò sconvolto dalla miseria e dalla tristezza di questa città. Al dispensario di Clichy, ascoltava i medici, le infermiere, i malati, i deputati locali, gli impiegati comunali, quasi tutti comunisti. Leggeva  Monde di Barbusse, discuteva con Georges Altman, come avrebbe discusso con Eugène Dabit. Aveva sentito parecchi discorsi e aveva letto molte teorie politiche. Nel suo scartafaccio “Mémoire pour le cours des hautes études”, proposta programmatica per lo l’istituzione di un corso internazionale d’igiene, metteva sotto accusa il capitalismo, e secondo principi di interpretazione marxisti, aveva intrapreso una rivoluzione nell’alimentazione dei francesi, degli studi medici, della pratica della medicina, e della farmacia. Non aveva nulla del reazionario. Il 21 febbraio 1933, Robert de Saint-Jean notava dopo una serata: “Céline vede molti comunisti a Clichy, e constata che i membri del partito, in genere, non ne capiscono niente delle teorie marxiste […] si lasciano guidare solo dalle loro passioni. Al comune, libri di Marx, mai letti; La Garçonne  [romanzo di Victor Margueritte del 1922, per l’epoca scabroso] consumato e annerito, invece. […] Bizantinismo dei decreti di Mosca. In fondo l’U.R.S.S. resta lontana, non è né amata né capita. Céline crede che la rivoluzione russa non sia per uso esterno e che, senza di essa, molti paesi dell’Europa centrale, dove imperversa disoccupazione e miseria, sarebbero già passati al comunismo…”
Nel dicembre 1932, Céline si era recato a Vienna per ritrovare Cillie Ambor, amica di origine ebrea, che cerca di aiutare come meglio può. Grazie a lei, incontra Annie Reich e Anny Angel, ugualmente di origine ebrea, iscritte al Partito comunista, psicanaliste specializzate in traumi e perversità infantili, con le quali discute di politica e di psicanalisi, se le prende a cuore, invia loro i suoi libri, scrive loro, le rivede nel 1935. Le lettere di Céline a Cillie Ambor dovrebbero correggere il ritratto facile di un Céline antisemita e fascista da sempre. Il 9 marzo 1933, scrive a Cillie: “Ho pensato molto alla vostra gentilissima amica (la amo) Annie Angel con quelle storie tedesche. Tutto ciò è atroce. Sembra proprio che Hitler debba alla fine schiacciare l’opposizione come in Italia”. Nella primavera del 1933: “Mi chiedo se siete protette a Vienna, se l’Hitlerismo non invaderà anche l’Austria? Quale follia scuote ancora il mondo! Sapevo bene che la vostra amica Annie Angel sovrastimava le forze del comunismo in Germania. Vedete cosa resta! Niente! Domani l’Europa intera sarà fascista e a lungo! Anche L.-F.Céline andrà in prigione”.   Il 20 aprile 1933: “Sono ben contento di sapervi per il momento in sicurezza ma la follia Hitler finirà per dominare l’Europa ancora per molti secoli.” Nel luglio 1933: “Vi sono molto riconoscente di avermi fatto conoscere Annie Reich anche lei è gentile come le mie altre amiche dell’Europa centrale ed è tutto dire. Mi ha detto mille cose assolutamente utili e mi ha reso in pochi giorni quasi intelligente. Porgete i miei saluti ad Annie Angel. Ditele che penso davvero al suo caso e che più ci penso più ho paura dell’avvenire”. Il 2 giugno 1934: “I nazisti d’Austria hanno l’aria meno cattiva di quelli di Berlino ma forse non durerà?” Il 28 agosto 1934: “Come stanno le Anny? I miei amori. […] Si è ucciso molto mi dicono nei dintorni di casa tua.  C’erano troppe persone nei caffè. Tutto ciò doveva finir male”. Tre anni dopo, il 26 ottobre 1937, giustificando “il buon metodo” del pamphlet, di rifiutare le sfumature o scrupoli in Bagatelle, Céline riprenderà con Marie Canavaggia la sua idea che i bistrot “non sono luoghi per brava gente”. E di buttar lì che a Berlino, nel 1933, nei caffè del quartiere Moabit, se “perfetti innocenti”, in mezzo a comunisti, erano stati uccisi dalle SA: “Non avevano che a non essere là!”
Prima che Anny Angel emigrasse in Olanda nel 1936 per sfuggire ai nazisti austriaci, Céline le propose come rifugio il suo appartamento parigino. Nel 1936, Anny Angel si stabilirà in Olanda dove eserciterà la medicina durante l’Occupazione sotto falsa identità, poi raggiungerà gli USA dove dirigerà dei corsi di terapia. Il 12  marzo 1937, Hitler entra a Vienna, acclamato dalla folla, e il 1° aprile avviene la prima partenza di deportati per Dachau. Nel 1938, Annie Reich lascia Vienna per raggiungere New York dove diventerà presidente della Società di psicanalisi. Il 9 novembre 1938, Vienna conosce la sua “Notte dei cristalli” e l’emigrazione ebraica, fino allora autorizzata, diventa difficile. Nel 1939, Cillie Ambor lascia Vienna per l’Australia dopo che il suo marito, Max Pam, morto a Dachau il 16 dicembre 1938, è stato sepolto a Vienna il 19 gennaio 1939.
Ci voleva parecchia incoscienza o coraggio da parte di Céline per recarsi in Russia fuori da qualsiasi organizzazione ufficiale nel settembre 1936, mentre Stalin aveva cominciato le sue grandi purghe e che Yagoda, capo dell’NKVD, aveva appena condannato Zinoviev e Kamenev, ex compagni di Lenin e Trotskij, loro stessi responsabili della morte di qualche milione di Russi. Ciò potrebbe far dire a Céline in Mea Culpa:

Guardateli, i nuovi apostoli… Tutti pancia e a cantare!… Bella Rivolta! Magnifica Battaglia! Misero bottino! Avari contro invidiosi! Era tutta qui, dunque, la gran contesa! Di soppiatto han preparato nuove scene… Neo﷓capoccia, neo﷓Cremlino, neo﷓sgualdrine, neo﷓lenin, neo﷓gesù! All’inizio eran sinceri!… Adesso, hanno capito tutti quanti! (Quelli che non capiscono: al muro.) Non sono mica colpevoli, ma sottomessi… Non fossero loro, sarebbero degli altri… L’esperienza gli è servita… Stanno sulle difensive come non mai… L’anima, adesso, è la «tessera»… Perduta! Più niente!… Le conoscono bene, loro, tutte le manie, tutte le debolezze del perfido Prolèt… Che si sfianchi! Che sfili! Che soffra! Che faccia il duro!… la spia! E’ la sua natura!… Non può farci niente!… Il proletario? in cella! Leggi il mio giornale! Leggi i miei sproloqui, precisamente quelli! Quelli e non altri! Addenta la polpa dei miei discorsi! E soprattutto non t’allontanare d’un passo, carogna! O ti taglio la testa! Non merita che questo, niente di diverso!… La gabbia!… Se uno va a chiamare i poliziotti, sa bene cosa l’aspetta!… E non è ancora finita! Si farà chissà cosa pur di non apparire responsabili! Si tapperanno tutte le uscite. Si diventerà «totalitari»! Con gli ebrei, senza gli ebrei. Non ha importanza!… L’Essenziale è ammazzare!”  È il passo più importante del pamphlet, per i lettori che denunciavano il tradimento dei soviet da parte di Lenin e dei bolscevichi e per coloro che sospettavano delle origini ebree a Trotskij, Zinoviev, Kamenev e Yagoda. Il seguito sarà dato in Bagatelle: “Me ne strafotto che Hitler vada a far fuori i Russi. Non potrà ammazzarne di più, nella feroce guerra, di quanti ne faccia accoppare Stalin tutti i giorni, nella libera e felice pace”.
A Leningrado, Céline ha misurato lo scarto tra l’ideale e il fallimento, le teorie e il tradimento. Non era l’unico. Nel 1935, ne I nuovi nutrimenti terrestri, Gide glorificava ancora il comunismo sovietico, prima di pubblicare il 13 novembre 1936, nel suo Ritorno dall’URSS: “Dubito che in nessun altro paese oggi, fosse nella Germania di Hitler, lo spirito sia meno libero, più curvo, più temuto, più vassallizzato”. Mea culpa può essere letto su quel piano. È a partire dal suo viaggio a Leningrado e dalla redazione di Mea culpa che Céline, che si rifiutava di salire sulle tribune politiche, dove era invitato da Aragon e Dabit, ha deciso di scendere nell’arena. Fu eroico da parte sua. Perdeva i suoi lettori di sinistra, i più numerosi, e al dispensario di Clichy, diretto dall’amministrazione comunista, si ritrovava solo, bersaglio dei peggiori truffatori.


Mea culpa segna una svolta anche sul piano letterario?

Mea culpa non è un piccolo pamphlet scritto di getto sotto un impulso di rabbia: ci furono più versioni e l’ultima che conosciamo presenta grafie diverse, e cancellature che sono significative. È un testo denso e ricco, sotto la forma comica. Nel 1933, a Robert de Saint-Jean, Céline confidava: “Devo entrare nel delirio, che tocchi il piano Shakespeare”. Ma è soprattutto in Morte a credito, come confessa a Dabit, che adotta il tono del delirio. Quello che ritroveremo in Bagattelle, come il suo amico Gutman gli fa notare all’inizio dell’opera. Nel 1936, a Joseph Garcin, Céline confessava: “Prendete questo secondo libro, deliro, esagero, bene, ma è la legge del genere, la mia legge – in realtà provo ad avvertire il lettore”.
Ma dal 1933, davanti alla violenza dei bassi istinti umani, Céline aveva scelto di opporvi la violenza di uno stile. A Helène Gosset che aveva scritto un articolo sull’ammaestramento degli animali [da circo] a Parigi, aveva plaudito alla sua rivolta con il tono iperbolico che diverrà ormai il suo: “Una città dove simili meschinità sono applaudite deve essere bruciata, massacrata, gassata, e lo sarà”.
Solo nell’arena, ben prima di Guernica, Céline aveva intonato il suo Canto puro, prevedendo che dal cielo sarebbero caduti i fulmini. Il la era stato dato.
Senza il tono delirante sapientemente adottato, Bagatelle sarebbe illeggibile, mortalmente noioso come lo è La Francia ebraica di Drumont. Contro la lingua morta dei politici, giornalisti, scrittori neoclassici, di destra o di sinistra, fascisti o comunisti, la maggioranza dei letterati, colti, raffinati, contro la menzogna della loro lingua morta, conformista, e delle loro idee generiche, astratte, inutili, il delirio céliniano si eleva come un grido di libertà, di individualismo, di autenticità. Contro il discorso del sottoprefetto ai campi, la falsa ricercatezza dell’acuto letterato cinese, la versione latina e la redazione composita, sinonimi di morte, il verbo di Céline rivendica una libertà e una vitalità, una contestazione individuale sgorgata dall’emozione individuale, inimitabile, un rifiuto di qualsiasi impegno ideologico, abbrutimento pubblicitario e condizionamento intellettuale.
Incipit di Bagatelle: “Il mondo è pieno di gente che si dice raffinata e che poi non è, ve l'assicuro, raffinata neanche tanto così. Io, servitor vostro, credo davvero di esserlo, un raffinato! Sputato! Autenticamente raffinato.”. Rifiuto dei discorsi patriottici imparati al liceo, rifiuto dei discorsi umanitari della SDN, rifiuto dei discorsi amorosi di Racine, rifiuto dei discorsi estetici di Proust. Discorsi, discorsi…Blabla! Ejusdem farinae…
Bagatelle, che doveva essere all’inizio solo “un libro corto, una piccola miscellanea, un intermezzo di 100 pagine”, è il seguito di Mea culpa. Céline ha scoperto di avere il dono del polemista comico, una musica rabbiosa. Il Viaggio è Chopin, un gran pezzo di piano, Morte a credito un ragtime, un pezzo veloce, Mea culpa e Bagatelle una fanfara di strada, una parata circense, [lo spettacolo] di un giocoliere con canzoni, balli, arringhe, lazzi. Céline attingeva la sua ispirazione negli spettacoli di danza o d’opera, ma ugualmente, come i grandi clown, negli spettacoli degli artisti di strada. Mea culpa contiene un elogio della danza: “Se l’esistenza comunista è esistenza in musica; più ragliante, equivoca e barbonesca, più carognesca che qui da noi, allora bisogna ballare tutti, tutti, niente più zoppi a rimorchio. Chi non ha voglia di ballare / qualche disgrazia / certo ha da confessare… Basta con le vergogne, il silenzio, gli odi, le rogne, i casini, un gran ballo per la società tutta intera, senza eccezioni. Più nessun minorato sociale, nessuno che guadagni meno degli altri, che non possa ballare”. Da dove proviene questo detto sulla confessione, la danza e la grazia? Nessuna nota nell’edizione scientifica dei Cahiers Céline sull’origine di questo terzetto. Da Céline stesso? A Milton Hindus, nel 1947, Céline scriverà: “Chi non balla ha qualche disgrazia da confessare” diceva un vecchio ritornello francese…”
Céline ha l’arte di confondere le tracce, seminando allo stesso tempo dei sassolini. Nel prologo di Romeo e Giulietta di Gounoud, Capuleti lancia alla folla “Andiamo giovanotti! Andiamo signore! […] Festeggiate la gioventù E largo ai ballerini! Chi resta al suo posto e non balla qualche disgrazia ha da confessare…”. Le parole sono di Jules Barbier e Victor Carré. In realtà adattamento o epitome dei versi di Shakespeare, che fa dire a Capuleti nella scena IV del primo atto: “…which of you all/Will now deny to dance? She that makes dainty/She, I’ll swear, hath corns”. Shakespeare! Il bardo ispirato delle fate e delle streghe, del popolo e della sua lingua, delle sue piccole gioie e le sue danze ribelli… Tra Shakespeare e Karl Marx, Gounoud e Stalin, Céline aveva scelto, tra i megafoni di Leningrado e le ballerine del Marinski, tra Carnevale e Quaresima, tra l’organico e il cerebrale, tra la vita e la morte.

Nella biografia che consacra allo scrittore, Henri Godard scrive: “Cinquant’anni dopo la sua morte, Céline è attualmente, tra gli scrittori del ventesimo secolo, uno dei più letti e soprattutto uno di quelli in cui la letteratura si incarna. […] Per i romanzi, lo status di capolavoro che gli viene riconosciuto quasi da tutti si poggia ancora troppo spesso sul solo Viaggio al termine della notte.” Come si spiega questo paradosso?

Il Viaggio è un libro ispirato e ambizioso. Céline è sempre stato avanti di una lunghezza sugli artisti del suo tempo. La sua opera è rivoluzionaria per le sue diverse scritture, le sue costruzioni innovatrici. Il Viaggio fu una rivoluzione, scioccò i benpensanti e gli accademici. Oggi ci sembra un classico. Morte a credito andava ancora più lontano nella rivoluzione dello stile e scioccò ancora di più, anche l’intelligentsia di sinistra. Pure, Morte a credito conteneva tante critiche nei confronti del sistema esistente, ma la denuncia delle utopie del secolo non piacque ad alcuni. Guignol’s band, in cui Céline portava al suo più alto grado l’arte del ritmo e del lirismo, e veicolando meno idee, almeno apparentemente, sconcertò gli ammiratori del Viaggio o di Bagatelle. E che dire di Pantomima? Il silenzio della critica non fu solo politico. Non era più letteratura ma il duende del cantaor, la  Ballata dell’appeso del nostro ventesimo secolo. Céline è l’unico scrittore che, come alcuni pittori o musicisti, si è rinnovato da un libro all’altro quando avrebbe potuto sfruttare il filone del Viaggio. La rivoluzione estetica che proponeva e che dispiega in Bagatelle per un massacro, contro la prosa neoclassica, la traduzione mentale, il meccanismo greve, la stramberia cerebrale, l’effetto  superficiale, l’arte morta non è stata capita, ancora meno seguita. Rivoluzione che prende la sua ispirazione, i suoi modelli dai grandi classici… tutti quegli autori che di secolo in secolo, - da Rabelais a Hugo, da Villon a Rictus-, hanno predicato uno stile più autentico.
C’è gente che preferisce il varietà inglese al jazz, i surrealisti o gli astratti agli impressionisti, i dischi ai concerti, il cinema al teatro, il gioco delle bocce in Wifi alla bocce all’aria aperta, le amicizie Facebook agli incontri reali, credendosi al vertice del progresso. Tutto quel che è meccanico, per Céline è morte.
Nell’epilogo de La Chiesa, è Rissolet il becchino ad essere affascinato dal fonografo: non guarda nemmeno Elisabeth ballare. Le opere di Céline sono una sfida all’ideale del ventesimo secolo. Si deve preferire Bosch o Brueghel a Picasso, Couperin o Chopin a Bartok, La Fontaine o Chateaubriand a Sartre, Offenbach a Wagner per capire la sfida estetica di Céline. Tra Casse-pipe e Lo Straniero, i professori preferiscono insegnare il secondo; è più presentabile e più facile da commentare. Anche meno buffo, ma la risata, la risata schietta, non quella di Beckett o di Ionesco, è più difficile da analizzare.
Ho l’impressione che l’opera di Céline non sia ancora stata studiata al livello che meriterebbe. Un grosso lavoro è stato fatto, ma gli studi céliniani sono solo al loro inizio, al primo stadio. Ed è piuttosto  normale. Dopo tutto, si è dovuto aspettare più di cent’anni perché Flaubert venisse studiato debitamente sfuggendo ai giudizi idioti dei Goncourt o di Leautaud. Rabelais ha aspettato tre secoli prima di essere letto sui suoi diversi livelli. Quando Aragon, comunista dal 1927, chiede a Céline “Perché scrivete?”, la risposta di Céline venne presentata come un “passo indietro” o una “piroetta” perché non risponde, come Aragon sperava, “per dare speranza alla classe operaia”, ma perché pone invece la questione di sapere perché “gli uomini, tutti gli uomini, hanno la mania di creare, di raccontare storie”, il che pone la questione a un livello più elevato. E questa risposta scava il fossato tra lo “scrittore” che non voleva essere Céline e il narratore che era prima di tutto. “È cominciata così” non è un preziosismo, ma una risposta orale, viva, faccia a faccia, alla domanda posta dal lettore.
Questione su un argomento che non è stato ancora chiarito, tranne per Serge Kanony. Lascio che sia lui per primo a rispondere. Céline non parla di viaggi al plurale, dei suoi viaggi intorno al mondo, come molti hanno creduto all’epoca, fermandosi agli aneddoti pittoreschi a suo tempo in voga. Il suo viaggio è immaginario, lo dice, ci avverte. È una storia di fantasmi, un delirio, una catena di sogni e incubi, “ai confini delle emozioni e delle parole”, “una sinfonia letteraria piuttosto che un vero romanzo”. Questo concetto di romanzo è ancora da analizzare. Letterariamente e storicamente manchiamo ancora di obiettività. Anni decisivi della vita di Céline, a Londra, in Svizzera, sono poco conosciuti. Le sue letture anche. Si ignora quel che poteva sapere della rivoluzione bolscevica, dei suoi capi, dei loro discorsi, o di quel che poteva sapere della politica inglese, americana, e della politica tedesca degli anni ‘30. Bisognerebbe leggere i giornali dell’epoca e non i libri di oggi. Il dottor Destouches aveva letto su Le Monde dell’8 maggio 1930 questo dialogo tra Georges Wells, denunciava la perversione del mito del proletariato e Henri Barbusse che scusava qualsiasi “catechismo” in nome dell’ideale e della “coscienza dei capi”? Nel dispensario, Céline leggeva Monde di Barbusse. Nel 1933, Edouard Herriot, ritornando dall’Ucraina, poco dopo la grande carestia (dai sei ai cinque milioni di morti) dichiarava di aver visto solo prosperità! La violenza di Bagatelle oggi ci è inammissibile. Bisognerebbe leggerla con gli occhi di un lettore dell’epoca. Era il tempo degli insulti iperbolici. Nel 1939, ne Les Cahiers du Bolchevisme, Maurice Thorez descriveva Léon Blum come un “rettile ripugnante, sciacallo, lacché dei banchieri londinesi, spione, guerrafondaio arrabbiato […] Blum dalle dita lunghe e adunche, ausiliare della polizia, spione che ha l’antipatia di Millerand per il socialismo, la crudeltà di Pilsudski, la ferocia di Mussolini, l’odio di Trotskij per l’Unione sovietica…”
Céline frequentava persone molto diverse. Ci sarebbero ricerche da fare in questo senso. Aveva letto davvero Fichte e Hegel in Inghilterra come aveva preteso Geoffroy? Cosa aveva potuto ricordare di Gobineau e di Elie Faure che dirà di aver letto? Bisogna compiangere i futuri biografi di Céline…Siamo appena usciti da un ventesimo secolo confuso e atroce, che guardiamo ancora con emozione o passione. Le cause della prima guerra mondiale sembrano adesso assurde, ma la generazione di Céline si è buttata con un entusiasmo e un eroismo poco comprensibili oggi. Non siamo usciti dalla seconda guerra mondiale. Temiamo perfino delle ripercussioni della Storia sui luoghi stessi del crimine, dimenticando che il crimine si è spostato in altri paesi. In questa Corea che preoccupava così tanto Céline nel suo esilio, forse un capriccio, ma profetico. Quando si legge Bagatelle pensiamo ai morti nei campi [di sterminio nazisti], abbiamo bene in mente cifre e immagini e racconti atroci. Leggendo Mea culpa o Bagatelle, non pensiamo ai milioni di contadini e “piccoli borghesi” russi che hanno mangiato terra e carne umana [durante la collettivizzazione sovietica dell’agricoltura tra il 1930 e il 1934, i morti per fame e a causa della “lotta di classe” furono milioni, con casi di cannibalismo]. In mente abbiamo poche immagini del Gulag. I liceali ignorano tutto. La nostra lettura di Céline è prigioniera della nostra conoscenza limitata della Storia a certe atrocità, senza ignorare o giustificare in alcun modo le altre. Nel 1936, il pericolo, per Céline, veniva dal bolscevismo, dalla Russia e dal continente asiatico. Politici di provata esperienza pensavano lo stesso. In  mezzo all’onda e alla tempesta, egli temeva per la Francia e l’Europa la guerra civile che stava devastando la Spagna. Reazione da paura, condivisa da altri che non erano per forza fascisti, ma anarchici, socialisti, borghesi o emigrati russi. Il fascismo, per lui, era solo una reazione temporanea, dovuta alla debolezza delle democrazie contro il comunismo. Simpatia per il fascismo? A partire dal maggio 1933, a Elie Faure, Céline scriveva: “Guardate quello che succede in Germania – Una decadenza generalizzata della sinistra […] Se diventiamo fascisti. Pazienza. Questo popolo l’avrà voluto. Lo vuole. Ama il manganello. Siamo tutti di fatto assolutamente dipendenti dalla nostra società. È lei a decidere del nostro destino. Marcia, agonizzante, è la nostra. Preferisco il mio proprio marciume, i miei propri fermenti a quelli di tal o talaltro comunista”. Cinismo? Céline frequentava delle tedesche. Ignorava che i comunisti tedeschi avessero preferito, per ordine di Mosca, l’hitlerismo alla socialdemocrazia, pensando che il nazismo sarebbe stato un male passeggero che avrebbe portato al trionfo finale del comunismo? Bagatelle è un pamphlet politico ma anche un pamphlet estetico. Ci allontaniamo dalla vera posta in gioco di Bagatelle. La posta in gioco estetica è esistenziale. L’opera di Céline si oppone ai valori estetici del ventesimo secolo, al trionfo del surrealismo, dell’arte astratta, dalla letteratura a tesi o dello stile accademico. Céline aveva paragonato la sua lotta a quella degli impressionisti contro i neoclassici, ma domani questo potrà essere lo scontro dell’arte figurativa contro l’arte astratta o delle anamorfosi. Gente istruita e raffinata preferirebbe Duhamel o Sully Proudhomme a Baudelaire o Bernanos. Non è più così. Ma alcuni preferiscono ancora Sartre o Queneau a Céline. Sarà ancora così tra cinquant’anni? Coloro che annunciavano dagli anni Trenta che Céline era illeggibile, sono oggi, ottanta anni più tardi, quelli che non sono neanche più ristampati.


Dal “Bulletin Célinien” del luglio-agosto 2012. 

Traduzione di Valeria Ferretti e revisione di Andrea Lombardi.




venerdì 20 luglio 2012

Per i cento anni di Lucette Almanzor...



Riproponiamo, con tanti auguri!!!

Intervista a Lucette Almansor         
Un siécle de ecrivains, 1998
Traduzione Andrea Lombardi

Intervistatore: Quando avete conosciuto Céline?


Lucette Almansor: Tempo fa. Molto tempo fa. Ritornavo dall’America, avevo lasciato l’Opera Comica e mi allenavo con un grande istruttore dell’epoca, d’Alessandrie, e tutti i giorni dovevo fare quattro - cinque ore di esercizi. Lui era interessato alla danza, ed assisteva alle lezioni di d’Alessandrie. È lì che ha cominciato a parlarmi a poco a poco. Era alquanto “selvaggio”, ed allora, sono stata parecchio prima di accettare di parlargli. Ma alla fine mi è sembrato piuttosto naturale.


I: Siete stata sedotta dal suo carattere?


LA: Oh, era straordinario.


I: Come era?


LA: A prima vista era assente, era molto distante. Aveva qualcosa di misterioso.


I: A quell’epoca, era già conosciuto come scrittore?


LA: Aveva appena finito Morte a credito. Era molto stanco, molto del… Ogni volta che scriveva un libro, era spossato. Ci mise, credo, dieci anni per fare Morte a credito. Ci mise molto, molto, e ne sentiva la fatica. Allora per lui la danza era uno svago, era attratto soprattutto dal lavoro della danza classica, che è molto duro, ed aveva un’attrazione per i movimenti agili. I suoi passi erano aggraziati. Ed io… io ero molto impressionata dai movimenti e dall’espressione dei suoi occhi. Era triste, sognante.     


I: E avete vissuto con lui per molto tempo?


LA: Dal momento che sono stata con lui, non l’avrei potuto lasciare. È stato senza dubbio nel 35,  no 36, 35.  Non l’avrei mai più lasciato.


giovedì 19 luglio 2012

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Scritta sul retro, da Mea Culpa, 1936:

Il me manque encore quelques haines.
Je suis certain qu'elles existent.

"C'è ancora qualche motivo di odio che mi manca.
Sono sicuro che esiste"

Louis-Ferdinand Céline

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sabato 7 luglio 2012

“Le bagatelle di mister Macbeth” - Da Shakespeare a Céline

Lecce: “Le bagatelle di mister Macbeth” al Paisiello

 

Asfalto Teatro si ispira al Macbeth di William Shakespeare per dare vita a una riscrittura inedita di un classico del teatro. Per la prima volta la compagnia Asfalto Teatro si confronta con Shakespeare, dopo aver attraversato con la sua ricerca decennale diverse messe in scena di testi narrativi (come opere di Lewis Carrol, Pierre Klossowski, Franz Kafka, Jack Kerouac). Un’evoluzione, dunque, dal testo letterario che diviene teatro, al testo teatrale che si trasforma in nuova ri-scrittura scenica.
Il lavoro drammaturgico parte dal presupposto di voler inscenare l’incontro tra l’opera originale di Shakespeare e altre scritture letterarie, in particolar modo quella di Louis-Ferdinand Céline, in accordo con la linea di ricerca che ha sempre contraddistinto le precedenti produzioni di Asfalto Teatro: ovvero la ri-scrittura teatrale realizzata grazie al montaggio di ritmi e di variazioni di linguaggi differenti.
“Le bagatelle di mister Macbeth”
Da Shakespeare a Céline

Info: http://www.laltrapagina.it/mag/?p=9227
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In effetti anche Mazet, in una recente intervista, metteva in rilievo il legame tra Shakespeare e Céline (ricordate come LFC citava Shakespeare vs Sartre ne L'agitato in provetta?)...

martedì 3 luglio 2012

Ci siamo alzati noi, ci siamo liberati delle sue mani. Sono restate per aria le sue mani, rigide, piantate tutte gialle e blu sotto la lampada.
Nella camera sembrava come uno straniero adesso Robinson, che veniva da un paese spaventoso e uno non osava più parlargli.

L.-F. Céline, Viaggio al termine della notte.

giovedì 28 giugno 2012

Intervista di Zbinden a Céline, sottotitoli in italiano!

Grazie a Thomas e a Jimmy, abbiamo non una ma due versioni dell'intervista!



Thomas (in due parti)



Jimmy (in quattro parti)

mercoledì 27 giugno 2012

Lucette, danza macabra attorno al culto di Céline

Escono in Italia le memorie della donna che divise vita e arte con lo scrittore francese. Ballerina dell’Opéra, oggi ha cento anni

Lucette Almanzor conobbe Louis-Ferdinand Céline, del quale acquisirà il vero nome, Destouches, e ruberà quel che rimaneva del suo cuore, che era ancora molto, nel 1936, l’anno di Mort à credit.



«Al nostro primo incontro io avevo 23 anni, lui 41. Mi dava appuntamento al Luxembourg, non parlava, cercava la mia forza». Cercava la mia forza. Lucette, che lui chiamava Lili, e Céline, che lei chiamava Louis, si sposeranno nel 1943 e rimarranno insieme fino alla morte dello scrittore, nel 1961. Lucette, invece, è ancora viva. Abita nella casa di Meudon, nei dintorni di Parigi, circondata da pochissimi amici. Oggi ha cento anni.
Nata nel 1912, ballerina all’Opéra di Parigi, fin dal primo incontro Lucette si dedicherà totalmente a Louis. «È con te che voglio finire la mia vita, io ti ho scelto per raccogliere la mia anima dopo la mia morte», le scrisse in una lettera Louis-Ferdinand alla fine degli anni Trenta. E lei, nelle sue memorie Céline secret, trascritte dalla voce di Lucette per mano dell’allieva Véronique Robert, uscite in Francia nel 2001 e ora pubblicate in Italia (Céline segreto, Lantana), ricorda: «Io non capivo assolutamente nulla. Con lui non cercavo la felicità, aspiravo semplicemente a renderlo meno infelice. Lui aveva bisogno della mia gioventù e della mia allegria, e io della sua testa di uomo che aveva vissuto. Ecco perché ci siamo incastrati subito l’uno nell’altra». E alla riga dopo, ecco la rasoiata: «Era un essere disperato, di un pessimismo totale che nello stesso tempo dava una forza incredibile. C’era in lui un’intensità nella tristezza che tutti sfuggivano».
Sfuggiti da tutti, senza parenti, senza affetti, senza amici o quasi, solo con i loro gatti, tra cui il leggendario Bébert che si portavano ovunque, Lucette e Louis condivisero tutto: l’arte, la guerra, il breve periodo trascorso a Parigi in rue Lepic, la fuga attraverso la Germania («A Berlino strisciavamo sotto terra con Bébert. Non c’era più una sola casa in piedi. Era un’atmosfera da fine del mondo e di fuochi fatui. Vedevamo sentinelle dappertutto e crepavamo di fame»), l’esilio in Danimarca («È il Paese più triste del mondo. Abitato da porci ipocriti... Là Louis si è rimesso a scrivere e io a danzare. Davo lezioni alla nipote di Goering, che era sposata con il figlio di un rabbino»), il rimpatrio nel ’51, la vita a Meudon dove Céline vive gli ultimi dieci anni di vita in completo isolamento, a scrivere la trilogia del Nord... E poi la povertà, le malattie, il processo per collaborazionismo, la condanna, il carcere («La prima guerra ne aveva fatto un mezzo uomo, un solo orecchio, un solo braccio, la testa in ebollizione. La prigione l’ha finito. Ha fatto di lui un morto vivente»), l’ostracismo del mondo intero. E tutto questo Lucette lo ricorda nelle sulle memorie. Lucette fedele compagna tradita dalle ossessioni di Céline, da Céline stregata e a Céline totalmente dedita, che difenderà in vita e in morte, tanto da giustificarlo anche nel suo antisemitismo. «Era un uomo scontento che, come molte persone a quei tempi, rendeva responsabili di tutte le sue disgrazie gli ebrei e i massoni. Louis ha sentito dirne male per tutta la sua infanzia, come uno sfondo sonoro ... Louis era incosciente ... Non voleva capire neppure quando gli dicevo: “Ti metti una lastra sulla testa”, quando scriveva Bagatelle per un massacro a Saint-Malo. Sosterrà fino alla fine di aver scritto i pamphlet con uno scopo pacifico, punto e basta. Era sincero».
Sincera, Lucette racconta il suo Louis, il Céline segreto, quello che non c’è nei romanzi, né nelle biografie «ufficiali». Adorava Shakespeare, «di cui diceva che avrebbe dato tutto ciò che aveva fatto per essere capace di scrivere uno solo dei suoi versi». Era ossessionato dal sesso. «Aveva alcune amanti di cui mi parlava. Raccontarmi di loro lo eccitava. Per creare aveva bisogno di quelle visioni... Ho sempre rifiutato di partecipare a delle orge per lui, ascoltavo le sue confidenze ma non mi impegnavo col corpo»). Linguisticamente puro. «Louis mi aveva proibito di pronunciare una sola parola in danese, fosse anche “pane”, broad. Il suo amore per il francese non sopportava nessun compromesso». Il suo sentirsi prima di tutto medico. «Grazie alla medicina, Céline si sentiva nel cuore delle cose, al centro della vita, nell’essenziale... Di fronte a un bambino che muore, nulla ha più importanza, la letteratura come il resto».
Per il resto, basta la prima frase del suo libro: «Dalla morte di Louis, la vita non mi interessa più».

Luigi Mascheroni  da Il Giornale, 27 giugno 2012

mercoledì 20 giugno 2012

martedì 29 maggio 2012

Ezio Raimondi "Da Leopardi e Céline, non c'è il lieto fine"


Ezio Raimondi  è nato a Lizzano in Belvedere nel 1924. E’ professore emerito nell’Università di Bologna: già titolare di Letteratura Italiana dal 1955 presso la facoltà di Magistero e dal 1975 presso la facoltà di Lettere e Filosofia. Per i tipi di Il Mulino ha appena pubblicato "Le voci dei libri" . Tra le altre sue opere, sempre per Il Mulino: "I sentieri del lettore" e "Ombre e figure. Longhi, Arcangeli e la critica d’arte"; da Einaudi "Il romanzo senza idillio"; da Bruno Mondadori "La metamorfosi della parola. Da Dante a Montale"

Compie ottantotto anni il Maestro bolognese, un "europeo di provincia" che ha onorato
un'idea di letteratura come teatro dell'esistenza

BRUNO QUARANTA
Evoca una legnaia la biblioteca di Ezio Raimondi, vasta, esuberante, tropicale. Ogni volume un ciocco via via arso e riarso, una scintilla di sapere, di libertà, di dignità, perché no?, di carità. L’autobiografia di una lunga fedeltà, ottantotto anni appena compiuti, di colloquio in colloquio, una tavola rotonda di color che sanno, dove Manzoni e Leopardi, Gadda e Renato Serra, Curtius e Machiavelli si riconoscono a vicenda, facendo rotolare i loro dadi, tenendo a bada il montaliano verdetto: «Il calcolo dei dadi più non torna»...

Nelle stagioni, Ezio Raimondi, un maggiore dell’Università bolognese (della cultura europea, aggettivo nella sua carta d’identità così cardinale), ha onorato un’idea di letteratura come «teatro dell’esistenza», quindi inattaccabile dalle muffe, dalle «scuole» curve sul loro ombelico, sorde al «sentimento tragico» che pulsa nella case, nelle strade, nei fori interiori.

«Il libro come creatura vivente, quasi un amico»... Una vita ascoltando Le voci dei libri, come Ezio Raimondi ha battezzato il suo ritratto di lettore per Il Mulino. Dalla cucina domestica, la madre donna di servizio in veste di maieuta, ancorata ai Miserabili di Victor Hugo, ai doni per il futuro di Luciano Serra, eroe di El Alamein, nipote di Renato (Gadda, Tesauro, Pasolini), all’Università, allievo di Calcaterra, alla cattedra d’italianistica, esplorando un ventaglio di sentieri, da Dante a Foscolo, da Verga a D’Annunzio, da Bachtin a Bloom.

E’ incastonata nella Bologna a mezza collina la casa di Raimondi. Una città, oggi, in questa tersa ouverture di primavera, immemore di ogni discesa all’inferno: «Qual pare a riguardar la Garisenda / sotto ‘l chinato, quando un nuvol vada / sovr’essa sí, ched ella incontro penda...».
Raimondi, lettore in erba.

«Esordii con L’Avventuroso. Ne ricordo le illustrazioni, straordinarie. Flash Gordon nel mondo astrale fu il primo incontro con la modernità futura. Fantastici i fumetti. Quando Calvino ne tesseva l’elogio: “...io che non sapevo leggere potevo fare benissimo a meno delle parole, perché mi bastavano le figure”».

E «Pinocchio»? E «Cuore»? Non se ne avverte la voce.
«Vero, non li cito, chissà... Vi sarebbe di che meditare. Di sicuro non mi sfugge ciò che significa Pinocchio: l’ingresso, per un ragazzo, nel mondo della letteratura attraverso il quotidiano, il dialogo continuo tra bene e male».

Nitida, invece, la voce del giallo.
«Il giallo Mondadori. Wallace, per esempio, ovvero il romanzo nero trasfigurato nella dimensione gialla. O l’arte per l’arte che accende Philo Vance, la creatura di Van Dine, quasi un’avvisaglia di D’Annunzio».

Dove acquistava i gialli?
«In una vecchia libreria. I più erano malandati. Li dotavo, ad uno ad uno, di una sovraccoperta su cui, a penna, riproducevo un’immagine dell’Avventuroso che mi aveva colpito. Contavo allora dieci, undici anni: a posteriori riconoscerò, nei gialli, un’educazione alla logica».

La sua iniziale «Storia della letteratura» fu quella di Flora, «libro - afferma - forse più dimenticato di quanto non si debba». Al vertice delle «Storie» quale pone?
«Una grande pubblicità corredò l’uscita dell’opera di Flora, inducendo mia madre a farmene dono. E’ il lirismo eloquente la sua impronta. A svettare, invece, è la Storia del De Sanctis. Una storia di tendenza. Ad animarla una dinamica civile. Traduce in maniera geniale le categorie di Hegel in una storia dello spirito italiano, collocandola nella prospettiva europea».

Leopardi e Manzoni, architravi di De Sanctis.
«Leopardi. Il suo classicismo è fondato sull’idea di ciò che si è perduto. Sente, sa, perché è un moderno, che con il passato, con l’universo degli antichi, bisogna misurarsi essendo venuti dopo. Occorre guardare indietro perché non vi si può più tornare. Il poeta, sono solito dire, come l’uomo cacciato dall’Eden».

Manzoni. Lei ci ha insegnato che «I promessi sposi» è un «romanzo senza idillio». Ma la Provvidenza non è idilliaca?
«Il Dio che atterra e suscita non è la promessa di alcun idillio. Michele Barbi, filologo principe, osserva che la parola Provvidenza non è mai pronunciata dallo scrittore, bensì dai suoi personaggi. Si riapra l’edizione del 1840, dove anche iconograficamente si distrugge il lieto fine. All’ultima pagina del romanzo, dov’è raffigurata una famiglia felice, segue La storia della colonna infame, che non è propriamente un paradiso terrestre».

Sessant’anni fa moriva Croce. Lei si considera un postcrociano. Che cosa resta di Don Benedetto?
«Piuttosto che il costruttore del sistema, rimane il letterato-filosofo, l’erudizione vivificata dalle idee».

E sessant’anni fa scompariva il Maestro con cui si laureò, Carlo Calcaterra.
«Su Petrarca. In realtà avrei voluto laurearmi in letteratura tedesca con Lorenzo Bianchi. Lo stesso Bianchi - tali i tempi, il suo lettore, ancorché eccelso, era nazista - mi suggerì di rivolgermi a Calcaterra. Né mi sarebbe dispiaciuto coronare gli studi con Roberto Longhi. Francesco Arcangeli, suo allievo, me lo propose. Ma per ragioni temperamentali ed economiche - bisognava dotarsi di mezzi costosi per condurre la tesi - vi rinunciai».

Longhi...
«Lui in cattedra. Io in fondo alla sala di storia dell’arte. Usava magistralmente la sua ironia. Riuscii ad avvicinarlo una sola volta prima dell’esame. Con la tecnica dei libri. Ma incauto, sprovveduto, mi presentai con un testo dell’inviso Berenson. Equilibrai lo scivolone con i Principi fondamentali della storia dell’arte di Heinrich Wölfflin».

Longhi, Arcangeli, Giorgio Morandi. Quale il corrispettivo del Maestro bolognese in letteratura?
«La sua idea di natura pare germinare dalla Ginestra leopardiana, il cui umanesimo - come mi è capitato di riflettere - “è l’epilogo non inatteso di un’esperienza poetica legata sino all’ultimo all’idea di una crisi metafisica dell’uomo e disperatamente rivolta a un’etica del nulla, da vivere, al di sopra di una storia personale, come pietà magnanima e austera”».

Cruciale, nella sua biografia intellettuale, è Renato Serra. In che cosa consiste il fascino incorruttibile di questo critico scomparso nella Grande Guerra?
«Intuii ciò che sarebbe venuto alla luce. A lungo, Serra è stato presentato, penso a De Robertis, come un mito fiorentino. In realtà sarà la voce di una letteratura non umanistica. Sulla scia di Kipling. Ma non unicamente. Attraverso i francesi, da Montaigne a Rabelais, maturerà un’idea di letteratura che fermenta nel quotidiano, lui che correva in bicicletta, che preferiva discorrere con la gente comune, anziché con gli accademici, che era sensibile alle donne».

«Un europeo di provincia: Renato Serra» si intitola un suo saggio. «La genialità prodigiosa della sua solitudine provinciale»: così saluta Leopardi. Che cos’ha di «aureo» la provincia?
«E’ il luogo del concreto e dell’autentico. Che consente di maturare una prospettiva più ampia, europea, ecco, restando fedeli alle rispettive cune».

Tra i libri che ha riconosciuto come essenziali, «Letteratura europea e Medio Evo latino» di Curtius. Un antidoto contro la dissoluzione dell’identità europea. Quale scrittore, meglio di altri, «è» l’identità europea?
«Il Thomas Mann di Giuseppe e i suoi fratelli: spalanca un mondo mitologico e storico, che si rinsalda con una modernità più urgente nella Montagna incantata o magica. Non dimenticando Musil, Broch, Eliot».

Le domeniche trascorse con Giuseppe Guglielmi traducendo Céline. Perché entrare in Céline?
«Pure Céline è un rappresentante del negativo. E’ uno scrittore antideologico. Con accenti che riconducono indietro, nel passato, nel Pascal di là della fede. Perché Port-Royal è un passaggio obbligato nella cultura francese, anche per i non cattolici. Da Pascal può sortire una tradizione nichilistica. Che cos’è l’abisso? Bloom ha dedicato pagine essenziali a Milton e al demonio, spiegando che Satana è il modello del poeta forte moderno. Céline è parte di questa scrittura infernale che sospinge alla miseria e alla pietà».

Se le fosse dato di tenere un ultimo corso, quale l’argomento?
«I corsi li pensavo in autobus. Individuavo un libro, ne affiorava un problema che diventava il racconto del corso. Sull’autobus non salgo più da tempo...».

Ma il tema dell’estrema lezione, per Raimondi, è annidato nei Promessi sposi, quella massima che è stata, che è, la sua divisa, il suo specchio: «La vita è il paragone delle parole».

(fonte: Tuttolibri, in edicola sabato 24 marzo)

Grazie a Valeria per la segnalazione!