martedì 12 novembre 2013

Céline pilota, di Jean Dubuffet

Céline pilota
di Jean Dubuffet

Il modo disgustoso in cui è stato trattato Céline dall'intellighentia francese, benché logico e prevedibile nel clima degli ambienti letterari e giornalistici, resta comunque uno dei fatti più desolanti ai quali io abbia assistito. Considero Céline come un inventore geniale, un poeta (ma questo ter­mine così trito di poeta lo definisce molto fiaccamente) di portata considerevole, non soltanto ai miei occhi il più im­portante nel nostro tempo ma addirittura nei molti secoli che costituiscono i tempi moderni, una delle più grandi chia­vi di volta della storia dello scrivere. Che questo non sia stato compreso di primo acchito dagli intellettuali contem­poranei, o per lo meno non in misura sufficiente per far ta­cere i loro risentimenti e i loro ignobili cavilli, che essi ab­biano fatto blocco con una così perfetta solidarietà per de­nigrare questa creazione monumentale e trasportarla in un ambito meschino di politica, è cosa solo a stento credibile. Perché un simile fenomeno abbia potuto prodursi su così va­sta scala bisogna che l'arte di scrivere sia oggi in tutti gli spiriti assai deviata rispetto al suo statuto originario, che sia stato affatto dimenticato quello che ci si può, che ci si deve aspettare da essa. Bisogna che la natura dell'arte e delle sue danze sublimi sia del tutto occultata, e che siano notevol­mente calate le temperature alle quali lo spirito si riscalda; bisogna che il gusto per il pensiero analitico e discorsivo (eterna insidia) abbia nettamente preso il sopravvento sulle incandescenze della creazione poetica, e che alla letteratura altro non si richieda, se non di raziocinare su argomenti cosi palmari, così oziosi, così piatti come i dibattiti di sociologia e di civismo. È francamente stupefacente dover constatare che i nostri poeti — perfino quelli che strombettano da po­sizioni che si pretendono ormai liberate dai luoghi comuni dell'etica — fanno un coro così superbo con i motivetti più scalcagnati e più stupidi della sociologia e del patriottismo. Eccoci ritornati ai bei tempi delle guerre di religione.
Il bello è che soltanto chi è in malafede può attaccar bri­ga con Céline in nome della salute pubblica e del patriotti­smo. Mai conosciuto un uomo dal cuore più caldo, più pa­triottico, più pronto a fraternizzare di lui: esemplare. Ma ci sono due modi di essere patriota, quello della testa e quello del cuore; il modo astratto, dottrinale, e il modo attivo e immediato. Inutile dire che Céline rientra nel secondo.
È bene notare che l'ostilità di cui fu oggetto Céline si di­chiarò molto tempo prima che egli avesse manifestato le sue opinioni su un qualsiasi argomento politico; l'atteggiamento demistificatorio che appariva fin dai suoi primi libri ne fu probabilmente la causa. L'intellighentia capì subito che c'era uno che si era messo a smascherare — così come si smina un campo. Lo statuto dell'intellighentia riposa tutto su un sistema di vasta impostura con una rete così complessa di postazioni e di trincee che anche se l'una o l'altra di esse salta non mette in pericolo l'insieme; ma quando compare un guastatore risoluto, colui che aggredisce direttamente la centrale, il grande sabotatore, le campane suonano a martel­lo e gli associati di ogni grado corrono sulle mura con l'olio bollente. L'intellighentia ha, per consenso unanime, la fun­zione sociale di criticare le istituzioni senza danneggiarne le fondamenta, di assumere il ruolo di difendere il pubblico con­tro la malversazione (per impedire che ci sia qualcuno che lo faccia sul serio); essa fa da compare all'imbonitore. Nella commedia, le spetta la parte del protestatario, ma ben inteso si tratta di un protestatario fasullo. Supponiamo che venga alla ribalta uno che non è della combriccola, ecco allora che tutto il teatro è invaso dal panico.
Le mistificazioni, Céline non le amava affatto, non voleva avere niente da spartire con esse. Rifiutava di valersene. Vo­leva dimostrare che non servono alla produzione dell'arte — di quella vera, per lo meno. Mirava a costruire un'opera che sia efficace anche senza il loro intervento, che anzi sia tanto più efficace per il fatto che esse non vi intervengono. E fu appunto quest'impresa a sollevare ovunque la collera. Gli scrittori, gli artisti tengono principalmente a conservare la mistificazione. E non soltanto essi. Contrariamente a quel che si potrebbe credere, contrariamente a quel che credono i demistificatori, a torto persuasi che si sarà loro grati della fatica che si prendono, il pubblico è attaccato alle mistifica­zioni; è complice e consenziente; si indigna non appena qual­cuno faccia l'atto di svelarle. Il pubblico è timoroso; il suo parere — abbastanza assurdo — è che le mistificazioni sono una moneta falsa tutto sommato preferibili all'assenza com­pleta di ogni moneta. Alla poesia intrinsecamente conside­rata esso non crede molto; la considera come un mormorio fugace (o addirittura illusorio) che comunque non può ma­nifestarsi qualora sia assente la sua liturgia. E quando la poesia appare a un tratto non più come un mormorio ma come un tuono, non più su una scena allestita con cura, ma in mezzo alla folla e per la strada, non più vestita di orpelli e di maschere, ma a viso scoperto, grintosa e furiosa, esso non vi riconosce più, come è ben comprensibile, l'immagine che gliene avevano inculcato.
Spero che si afferri bene quel che intendo riferendomi alla mistificazione su cui la letteratura cavalca. La letteratura è in ritardo di cento anni sulla pittura. Essa si alimenta da molti secoli non ai dati immediati della vita ma alle opere del passato, come api che si nutrano del miele e non dei fiori; essa è irresistibilmente magnetizzata e polarizzata dal­le opere del passato. Il prestigio di quelle è così forte che nessuno scrittore, quand'anche vi metta ogni sforzo, riesce a districarsene e a ritrovare lo stato di innocenza di cui ne­cessita la creazione. La pittura ha fatto ormai da tempo la sua rivoluzione; la letteratura — se si eccettui il solo Céline — non ha fatto la sua. Malgrado certe varianti che restano epidermiche (consistono soltanto nel cambiare un poco il ripieno del pasticcio, sono di tematica e non di tecnica, di intervento locale e non di rinnovamento ab imis) la lettera­tura è bloccata, messa in gelatina. Chiunque non sia un sot­tile specialista potrebbe con tutta facilità attribuire una pa­gina contemporanea a Voltaire o a Descartes. Fate solo lo sforzo di paragonare le differenze che separano un dipinto attuale da uno di Raffaello e una pagina di Sartre da una di Diderot e coglierete subito come stanno le cose. La forma della pittura è totalmente cambiata; quella dello scrivere è pressoché rimasta la stessa. Ora nell'arte è la forma che de­termina ogni possibile efficacia dell'opera. A una stessa for­ma corrisponde uno stesso contenuto. E solo un cambiamen­to di forma che provoca un cambiamento di contenuto. La letteratura crede che importi il suo pensiero, non il suo cor­po; si tratta dell'ottica cristiana del corpo e dello spirito. Essa crede di poter rinnovare il pensiero senza toccare il corpo, che in tutta la faccenda le sembra essere soltanto re­cipiente inefficace, imballaggio. Errore! Così non rinnova un bel nulla. Solo quando la letteratura si deciderà a inventarsi dei corpi nuovi (come ha fatto la pittura), potrà conoscere che cosa vuoi dire avere un atteggiamento spirituale vera­mente nuovo, e vedrà riaccendersi il suo fuoco.
Non si ripeterà mai abbastanza che l'arte è una questione di forma e non di contenuto. Lo sforzo dello scrittore di nu­trire la sua opera di informazioni rare e di analisi fini è del tutto improprio. Il pensiero analitico è una cosa e l'arte un'al­tra, completamente diversa. Essa ha dei mezzi più ricchi, più sbrigativi. Vi sbriga con un gioco di mano, in una mezza riga (pensate a Céline) quel che il pensiero analitico, con i suoi piedi di piombo, non riesce a enunciarvi in un intero volume. Anche la pittura ha creduto a lungo che il suo problema fos­se di dare ai cristi e alle vergini delle espressioni ingegno­samente rinnovate. E solo quando si è decisa a sostituirvi delle mele, dei bicchieri di assenzio e dei pacchetti di siga­rette che ha fatto la sua rivoluzione. Questa consisté nel por­tare l'invenzione non più sulla scelta dell'oggetto rappresen­tato ma sui mezzi e i materiali messi in opera, sui modi di trascrizione, sulla sintassi. Che ali le sono spuntate allora! A che voli si è data incessantemente a partire da quel mo­mento !
Può darsi che la pittura abbia approfittato dello sviluppo della fotografia; essa le sottraeva una funzione tale da im­plicare delle confusioni continue e di cui ha probabilmente sofferto per molto tempo. Ci sarebbe da augurarsi che anche le funzioni dello scrivere, che sono del pari assai varie e di­verse fra loro, fossero messe in chiaro allo stesso modo. Cosi come la pittura e il disegno sono ora un mezzo di creazione e d'arte e ora di informazione, di documentazione (come nei grafici industriali, geografici o d'altro genere, o come nei ritratti di persone care e di luoghi piacevoli), allo stesso mo­do lo scrivere serve indifferentemente al poeta e all'avvocato, al giornalista, al notaio. Si tratta di due funzioni che non sono abbastanza distinte. La rassomiglianza, la quasi identità della forma di cui si valgono gli scritti miranti alla creazione artistica con quella che assumono il rapporto di un carabi­niere, o il discorso di un ministro, o le istruzioni per l'uso di una macchina, è cosa altamente sorprendente. Credo che non se ne avverta sufficientemente l'incongruenza. Dopodiché non c'è da meravigliarsi se le posizioni di pensiero dell'avvo­cato, del giornalista e del politico si insinuano sulla scia della forma impiegata e prendono il posto della creazione d'arte al punto da far dimenticare addirittura quel che essa fu in passato, quel che deve tornare a essere.
Il fatto è che lo scrivere creativo comincia solo quando le parole siano utilizzate non più in ragione del loro stretto significato (esse formano sotto questo aspetto un povero re­gistro di schemi adatti a enunciare soltanto dei pensieri del tutto semplicisti), ma con arte come fanno i giocolieri con i cappelli, le uova, i fazzoletti — in un'ottica completamente diversa da quella di indossarli, di berli o di soffiarsene il naso. Soltanto a patto di usare le parole in questa maniera si può fare della loro tastiera uno strumento atto a trasmet­tere un pensiero caldo e pungente. In ciò sta l'innovazione di Céline, che va nello stesso senso della pittura attuale che utilizza allo stesso modo i segni, i tracciati, le tinte, non più soltanto in ragione delle figurazioni cui sono attribuiti (e in guisa tale che sia possibile "prenderli alla lettera") ma al con­trario procurando di spezzare il loro legame troppo imme­diato alle rappresentazioni dirette d'oggetti. In questo modo il pittore provoca uno sfasamento, una cesura tra i segni di trascrizione e gli oggetti da trascrivere, introduce un margi­ne tra i primi e i secondi ed è appunto questo margine che, aprendo il passaggio a tutto un flusso di echi e di trasalimen­ti, diviene un vero e proprio meccanismo generatore.
Può sembrare paradossale che certi caratteri ritenuti pri­vativi come l'improprietà, l'inadeguazione, possano, se abil­mente sfruttati, accrescere notevolmente il valore delle tra­scrizioni. Ma il fatto è che il pittore (o lo scrittore quando si tratta di Céline) che assegna in partenza come regola al suo gioco una simile articolazione aperta tra i fatti descritti e la descrizione che ne restituisce, obbliga con ciò stesso il fruito­re dell'opera a un processo continuo di sostituzioni e lo co­stringe ben presto a leggere non le righe, ma tra le righe. L'o­pera si trova con ciò dotata di una nuova dimensione comparabile a un rilievo, a una risonanza, al timbro di una voce. Così come appunto il timbro di una voce è prodotto dalla si­multaneità di due vibrazioni che non coincidono esattamente.
Nell'impiego magistrale che Céline fa dei vocaboli questi funzionano non già per apportare il loro senso proprio e tra­dizionale ma come dei limiti ingegnosi fra i quali egli eccel­le nel far apparire, senza enunciarlo (in negativo, in rientran­za) ciò che intende veicolare. È per questo che il modo di scrivere che egli ha così meravigliosamente messo a punto (non solo inventato, ma portato subito a una perfezione che sembra impossibile poter eguagliare) rassomiglia al più sa­porito "parlato." Anche nel parlare infatti — mi riferisco evidentemente al parlare veramente comunicativo, al parlare affatto diretto e spontaneo — non è la scelta delle parole pronunciate quella che trasporta e restituisce il pensiero ma piuttosto il tono, l'intonazione, la mimica, dimodoché l'es­senziale — il frutto — si trova a esser manifestato senza venir formulato, con una istantaneità, una totalità, una for­za che non potrebbe esser raggiunta da alcuna formulazione esplicita — fosse anche prolungata a ore e ore di conversa­zione. Il ricorso all'implicito è forse ciò che caratterizza l'ar­te. Nessuno, credo, ha mai usato l'implicito al punto in cui l'ha portato Céline. Egli ne fa tutta la molla continua del­l'opera.
Il caso di Céline, la sua carriera, il suo destino sono sotto tutti gli aspetti fuori di ogni regola e sconcertanti. I suoi primi due libri, il Voyage au bout de la nuit e Mori a crédit hanno avuto presso il pubblico un clamoroso successo, do­vuto senza dubbio per buona parte a un equivoco. Sono si­curamente due opere ammirevoli, ma restano, mi sembra, in confronto con quelle venute dopo, un po' nel giro solito e rendono ancora in parte omaggio al rituale del romanzo clas­sico. Senza dubbio è proprio per questo che sono piaciute. Si è creduto di esser davanti a Zola e al verismo, al docu­mentario e alla presa "dal vero." Il nostro tempo è affasci­nato dal verismo, che gli fa da succedaneo dell'arte. Céline è molto lontano dal verismo. È un artista, un artista molto grande; commuove, trasmuta. Si vale del primo istante di vita giornaliera che gli viene per le mani e, alchimizzando i fatti più insignificanti, i pensieri e gli umori più banali, elabora quei sublimi sabba dello spirito, quelle manipolazio­ni vertiginose, quelle danze di derviscio che sono i grandiosi affreschi di Féerie pour une autre fois e dei libri successivi.
Per una sorprendente singolarità questi libri, che sono quelli di una piena maestria, sono a tutt'oggi ancora praticamente sconosciuti. Non hanno avuto pressoché alcuna diffusione; ben poche persone li hanno letti; vengono citati raramente. Forse che Céline ha "teso le sue reti troppo in alto"? Potreb­be darsi. Il pubblico finora conosce a malapena i suoi due primi libri e la assai speciosa figura di polemista preteso razzista e filo-nazista che su di lui è stata impiantata, a forza di forzature delle sue opinioni e di affermazioni menzognere, da una stampa tutta rivolta a sconfiggere il razzismo e il nazismo e che senza batter ciglio getta nel crogiuolo di que­sta causa il probo, l'irreprensibile Céline e le sue epopee demiurgiche.
Ma questo accanimento contro l'opera di Céline ha vera­mente per solo motivo le sue opinioni politiche? Sembra as­sai poco plausibile. Ho parlato della mistificazione su cui riposano la letteratura, l'accademia, il mito culturale; ma non sono i soli a fondarsi su di essa. Nel nostro paese di estetocrazia — non so cosa succede altrove, la stessa cosa senza dubbio, ma, credo, non allo stesso punto — tutto ciò che si vanta di appartenere alla casta dominante si rifà prima di tutto al buon gusto, al discernimento estetico, al bel parlare, al bello scrivere. Il partito delle belle arti, delle belle maniere e delle belle lettere è il partito che ha il coltello per il ma­nico. La casta al potere si autoproclama museo della cultura e ripone su di ciò la propria legittimità. È il suo argomento di riserva, il suo salvacondotto. La Signora — la signora Boc­ca Delicata, la signora Alta Moda, la signora Grandi Arie — sa che coniugando i suoi congiuntivi non mancherà di tra­volgere in un terrore reverente il fontaniere che ripara il rubinetto. Anche quando la signora non ha soldi per pagare la riparazione. Non è la ricchezza ad assegnare i galloni, è l'uso del congiuntivo. Si è ben considerato tutto ciò? E si son prese le debite precauzioni? Credo di no. Il mito del bello scrivere è una pezza capitale della difesa borghese. Se volete colpire al cuore la casta dominante colpitela nei suoi congiuntivi, nel suo cerimoniale di un bel linguaggio vuoto, nelle sue leziosaggini di esteta. Chi riuscirà a disinnescare una buona volta le sante reliquie che essa brandisce come gli stregoni negri i loro feticci — i suoi grandi autori, la sua Gioconda, le sue sedie Luigi XV, la sua bella grammatica, la sua lingua morta sterilizzata, tutto quel cumulo di ossari che fa passare per arte e cultura — chi riuscirà a far entrare nella testa dell'ultimo fanalino di coda che la vera arte vi­vente, la sola, e la vera creazione inventiva sono dalla sua parte e non da quella della mascherata che si svolge sotto il patrocinio dei ministeri, costui suonerà la fine della casta dominante. Ma potete star tranquilli che la casta dominante si difenderà. Il suo mito essa lo difende secondo il suo stile: tutti i mezzi sono buoni, tutti i colpi permessi. Non credo però che lo difenderà a lungo dalla confutazione portata da Céline.


[Traduzione di Renato Barilli, grazie a Gilberto Tura per la segnalazione!]

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